Batteri buoni contro quelli cattivi: ecco la strategia di un gruppo di studiosi spagnoli

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Sfruttare dei batteri “buoni”, geneticamente modificati, per eliminare i batteri responsabili di pericolose infezioni, come quelle che possono avvenire negli ospedali. È la strategia descritta in uno studio pubblicato sulla rivista Molecular Systems Biology da un gruppo di ricercatori del Centre for Genomic Regulation del Barcelona Institute of Science and Technology.

Il bersaglio sono tutti quei batteri che si difendono dagli antibiotici formando delle pellicole (o biofilm), come lo Staphylococcus aureus, che può colonizzare impianti medici come le protesi, i pacemaker e i cateteri. La protezione offerta dai biofilm è tale da rendere i batteri fino a mille volte più resistenti ai farmaci antibiotici.

La soluzione sviluppata dai ricercatori catalani prevede la reingegnerizzazione del batterio Mycoplasma pneumoniae rendendolo inoffensivo e dotato di enzimi battericidi utili a dissolvere i biofilm di Staphylococcus aureus. “L’idea è di fare in modo che certi batteri, naturalmente presenti nei polmoni di buona parte delle persone, possano produrre – in modo continuo e locale – una serie di sostanze utili. In questo caso abbiamo fatto esprimere al batterio Mycoplasma pneumoniae delle proteine che possono scavare dei buchi nel biofilm e anche delle altre proteine antimicrobiche” spiega Maria Lluch, biotecnologa presso il Centre for Genomic Regulation e coautrice dello studio. “Quindi il batterio reingegnerizzato geneticamente ha una doppia funzione: intaccare il biofilm e uccidere i batteri nocivi. Il mezzo con cui facciamo arrivare il nostro batterio antimicrobi nei polmoni è un nebulizzatore”.

Utilizzare microrganismi geneticamente programmati per rilasciare in modo continuo, e controllato, molecole terapeutiche è una promettente alternativa all’uso di biomolecole. “Questo perché le biomolecole non vengono tipicamente somministrate localmente, ma in modo sistemico, ad esempio nel sangue per via endovenosa. In certi casi questo vincolo limita il loro uso per via della potenziale tossicità: per far arrivare abbastanza biomolecole curative là dove servono, infatti, bisogna assumerne una grande quantità, perché tante di queste finiscono anche altrove” spiega Lluch. “Invece usare dei sistemi viventi, come i batteri, perché producano biomolecole curative localmente, quindi proprio nel punto in cui servono, permette di superare questo ostacolo”.

I ricercatori spagnoli hanno scelto di usare il Mycoplasma pneumoniae per diversi motivi: “È uno dei batteri che si conoscono di più, ha un metabolismo e un genoma abbastanza semplificato, e non ha una parete cellulare: questo significa che ha meno probabilità di suscitare una reazione immunitaria, visto che in genere sono le proteine che si trovano sul rivestimento delle cellule a stimolare il sistema immunitario – spiega Lluch. – Inoltre l’assenza di parete cellulare facilita il rilascio di sostanze bioattive come gli enzimi che abbiamo voluto usare per distruggere i biofilm batterici”.

Questo sistema è stato sperimentato sui topi, e si è mostrato efficace: in nove topi su dieci il biofilm è stato eliminato e l’82% del campione è stato liberato dall’infezione batterica. “I batteri nocivi non possono generare resistenza contro questo tipo di approccio perché non possono evitare che il biofilm venga distrutto: è anzi proprio il biofilm che, agendo come una barriera, aumenta la loro resistenza agli antibiotici tradizionali” sottolinea la scienziata.

Il prossimo passo è ottimizzare la produzione su larga scala e ottenere le autorizzazioni per la sperimentazione clinica, che dovrebbe partire nel 2023. Ad accrescere l’interesse per questo approccio è la sua duttilità: “Intervenendo sul genoma dei batteri impiegati per dotarli di un “carico” antibatterico ad hoc, si potrebbero infatti attaccare una vasta serie di patogeni che oggi trovano protezione nei biofilm – spiega Lluch. Come ad esempio, nel cavo orale, i batteri che provocano la carie”.