Chi sono i resistenti: esposti al covid non si ammalano ma non sviluppano nemmeno l’infezione

covid test

Il covid ha una caratteristica anomala: vi è una notevole differenza nella severità dell’infezione, che può spaziare dalla totale assenza di sintomi (asintomatica) all’emersione di complicazioni severe da portare alla morte del paziente. È noto che le persone anziane, di sesso maschile e con patologie pregresse (comorbilità, in particolar modo diabete di tipo 2 e ipertensione) sono quelle più esposte ai rischi maggiori. Ma ci sono anziani e malati che hanno superato senza problemi l’infezione, così come sono noti casi di giovani in salute che hanno perso la vita per la COVID-19 (l’infezione provocata dal virus). A rendere più peculiare questo ventaglio di possibilità, l’esistenza di persone che pur essendo a stretto contatto con uno o più positivi, non solo non si ammalano, ma non contraggono nemmeno l’infezione. Sono quelli che alcuni scienziati chiamano i “resistenti”.

Tra chi sta studiando a fondo questi casi eccezionali di immunità naturale al SARS-CoV-2 vi è il team di esperti dell’Università di Tor Vergata guidato dal professor Giuseppe Novelli, genetista di fama internazionale ed ex rettore dell’ateneo romano. Gli scienziati italiani stanno lavorando a stretto contatto con i colleghi della Rockfeller University di New York e di altri istituti, tutti riuniti sotto l’egida del Consorzio Internazionale di Genetica (Covidhge). L’obiettivo è analizzare a fondo il DNA di queste persone fortunate e comprendere come mai riescano a evitare malattia e infezione, pur essendo chiaramente esposte al virus. Uno dei casi più significativi riguarda una coppia di Terni trasferitasi a Milano. L’uomo si ammalò di polmonite diverso tempo addietro, e la compagna se ne prese cura non sapendo che potesse trattarsi di COVID-19. I test sierologici hanno confermato la positività di lui, mentre lei non contrasse nemmeno l’infezione asintomatica, pur essendo stata esposta al patogeno. Com’è possibile? Il team di Novelli sta predisponendo un nuovo studio nel quale coinvolgere tutti i casi particolari come quello della coppia umbra, dove appunto figurano i già citati “resistenti”.

Gli scienziati ipotizzano che dietro questo scudo immunitario possa esservi la genetica, come nel caso dell’infezione provocata dal virus dell’HIV, la sindrome da immunodeficienza acquisita o AIDS. È noto che circa il 10% della popolazione è portatrice di una mutazione (una delezione nel gene CCR5) che impedisce al virus dell’HIV di legarsi al recettore sulle cellule umane, e ciò impedisce il contagio e la malattia. Si ritiene che i resistenti alla COVID-19 possano presentare una mutazione o più mutazioni che abbiano il medesimo effetto protettivo. Sono una cinquantina i geni individuati dagli esperti del Covidhge che sembrerebbero essere associati alla suscettibilità all’infezione. Nei mesi scorsi gli scienziati del consorzio hanno scoperto che il 10-15% dei casi gravi dell’infezione da coronavirus SARS-CoV-2 è dovuto proprio alla genetica, e più nello specifico ad alterazioni che influenzano il funzionamento dell’interferone di tipo I (IFN I), una proteina appartenente alla famiglia delle citochine che regola l’attività del sistema immunitario. Una parte dei pazienti gravi presenta auto-anticorpi in grado di attaccare questa proteina e distruggerla, mentre altri non la producono in modo corretto per via delle mutazioni. I resistenti potrebbero avere un gene mutato che permette di produrre una quantità superiore di interferone (la prima linea di difesa contro il virus) e dunque essere protetti.

Dare la “caccia” ai soggetti realmente resistenti, specifica Novelli al Mattino, non sarà comunque semplice. “Abbiamo un protocollo approvato dal nostro comitato etico. In molti ci stanno scrivendo per poter partecipare. Ma dobbiamo avere la certezza che abbiano i requisiti, che abbiano fatto per esempio tutti i test per il Covid”, sottolinea lo scienziato, riferendosi sia ai tamponi molecolari che ai test sierologici che cercano anticorpi. L’immunità, tuttavia, come spiega il professor Roberto Luzzati, docente di malattie infettive presso l’Università di Trieste, non è solo di tipo anticorpale, ma anche cellulare, inoltre secondo l’esperto va tenuto presente che l’immunità naturale ha una certa durata (stimata in almeno 8 mesi, secondo un recente studio australiano) e che i tamponi non sono infallibili. Identificare chi è realmente resistente e soprattutto la ragione per cui lo è non sarà semplice, ma lo studio guidato dall’Università di Tor Vergata potrà portare risultati preziosi nel contrasto all’infezione, ad esempio gettando le basi per nuove terapie.